Ugo Cordasco Scultore
Critiche

Critiche

NICOLA PAGLIARA (2008)

La storia del “design” è piena di fenomeni disparati e di ricerche all’interno di filoni collegati sia al logico sviluppo dell’analisi figurativa della funzione, intercettata sul suo sviluppo estetico, e sia su risultati di ricerca radicale che, liberi da valenze “culturali”, aggiungono al loro valore funzionale un aspetto autonomo, legato ad un originale motore di ricerca, spinto più a cogliere i valori ironici e escatologici della rappresentazione che non alla pura valorizzazione estetica delle indispensabilità d’uso. Viene perciò spontaneo chiedersi se realmente questi risultati facciano parte dell’universo del design come siamo abituati a conoscerlo, o se piuttosto non facciano parte di un mondo nel quale l’artisticità prevarica il bisogno e il bon ton, con il quale siamo d’altra parte abituati a far coincidere l’esperienza figurative e l’armonia, finalizzati ad ottenere raffinati equilibri.

 

Il lavoro di Cordasco segue la strada dell’essere anziché quella dell’apparire, ma non radicalizza soltanto il prodotto e gli effetti della sua ricerca, anzi compie un’operazione tutta di testa, cogliendo dalle semplici ironie e dal grottesco, una originale “praticità” di tipo essenziale e che trova la sua ragione d’essere, nella capacità che il soggetto che recepisce la forma, partecipi all’essere stesso del pezzo progettato.

 

In tal modo la partecipazione d’uso non è più passiva e di pura gratificazione, ma costringe a darci spiegazione (e quindi a riflettere) sul perché e il dove quell’oggetto d’uso trae ispirazione. Il che riporta l’operazione di Cordasco, in un livello diverso dalla produzione seriale del pezzo raffinato quanto si vuole, ma pur sempre inserito nelle analisi storiche fondate sulla ripetibilità dell’opera d’arte.

 

I risultati di Cordasco sono al contrario degli unici senza scampo, creati per esserlo e con una connotazione che gli fa prevaricare la finalità d’uso, e li inserisce in un circuito tutto metafisico paragonabile solo ai “ready made” di Duchamp.

Ora, se l’alta qualità e la fattura raffinata del pezzo prodotto dall’industria consentono di commercializzare opere d’arte alzando così il livello di attenzione verso una società del sublime, la messa a terra dei risultati che l’artista ci propone, esulano dal “pratico” e dall’utile per diventare luoghi di riflessione e muse inquietanti. A questo punto i pezzi disegnati da Cordasco, possono (come ogni vera opera d’arte) essere vissuti a sé, estrapolandoli dal contesto ed elevarli ad autentica opera di riflessione.

E molto hanno da raccontarci, se si badi bene, i loro materiali, i titoli ed i soggetti, vanno ben al di là di ciò che appaiono, per affondare le loro radici, nella sfera dell’essere e del metafisico, utilizzando l’osservatore ed il fruitore come rimbalzo sonoro dei nostri pensieri.

Cordasco architetto ha sviluppato con la sua opera, un filone che gli architetti normalmente dimenticano di affrontare. Nell’eccesso di funzionalità e di efficienza, si dimentica spesso che la creatività svolge una funzione “terapeutica” in questa società sempre più arida e distratta. Può salvarla solo l’ironia e l’artisticità, elementi propri della ragione e dell’entusiasmo di offrire schegge di felicità.

Nicola Pagliara

ANNA CRESCENZI (2010)

E’ relativamente recente l’attenzione che Ugo Cordasco ha volto al mondo dell’arte. La sua formazione ha radici nel fare dell’architettura e del design, ma si sa che fin dall’insorgere delle avanguardie artistiche  del ‘900, la separazione fra questi mondi si è andata ad assottigliare, fino, in alcuni casi, a scomparire del tutto. Le sue opere, però, nascono da un’altra forma d’arte, la scrittura.

Diari fitti di pensieri, ricordi, storie… 

Storie di cavalieri erranti, di ponti levatoi, riflessioni sull’uomo e il suo destino, legami fra il passato e il presente, la fanciullezza e la maturità… ed è da queste “immagini” che prendono forma le sue idee e alla scrittura si affiancano schizzi di possibili materializzazioni.

Già dal 1999 Cordasco si impegna nella produzione di oggetti di design. Le sue creazioni si legano ad un uso quotidiano dell’oggetto ma come, nella presentazione in catalogo della mostra “C’era una volta… Design e leggende” del 2008, sottolinea il Prof. Nicola Pagliara: “ I risultati sono degli unici senza scampo, creati per esserlo e con una connotazione che gli fa prevaricare la finalità d’uso (…)”

Il 2008 è l’anno del distacco, la creazione dell’oggetto d’uso lascia il posto all’unicità di cui parla il Prof. Pagliara  e si concretizza nella realizzazione di una serie di bozzetti che materializzano le “immagini” della sua scrittura, legati ancora  ai segni della sua formazione, poi se ne distaccano per poter trovare vita propria, avulsa da qualsiasi uso comune se non la pura contemplazione, lo stimolo al pensiero  e il respiro con lo spazio.

Due delle sue opere sono emblematiche di questo passaggio, il trittico di “Escalibur

i cui elementi possono essere utilizzati come lampade e l’ultimo lavoro “La struttura dell’anima” nel quale emerge un unico intento: il dialogo delle forme che s’avvolgono su se stesse, raccolgono l’aria e l’accompagnano verso l’osservatore.

Dicembre  2009                             

Anna Crescenzi

GIORGIO AGNISOLA (2012) (critico d’arte) 

In bilico, con finezza, tra tensione simbolica e sintesi astratta.

PASQUALE RUOCCO (2012)

Il momento del cambiamento è l’unica poesia (Adrienne Rich)

 Crisalide: le mutazioni per Ugo Cordasco

Distratti dall’inquinamento mediatico che ci circonda spesso, per non dire quasi sempre, non ci rendiamo conto che in natura regna la regola della metamorfosi, una legge universale dalla quale nulla può sottrarsi.

Lungo questa prospettiva si muove il recente lavoro di Ugo Cordasco significativamente raccolto sotto il titolo di Crisalide.

Per l’artista che opera a Sarno nella parte interna dell’area vesuviana, l’architettura, il design e la scultura, rappresentano gli stadi di una personale mutazione, di un cammino teso alla ricerca di una possibilità espressiva che sia aderente al suo essere.

Laureatosi in Architettura nel 1992 Cordasco avvia l’attività di progettista con la quale si avvicina lentamente  al design, frequentando la Scuola di Specializzazione in Disegno Industriale di Napoli, dove entra in contatto con Riccardi Dalisi dal quale apprende l’interesse per le qualità estetiche dell’oggetto.

L’insoddisfazione verso quest’ultimo, in particolare la necessaria attenzione ad un principio di funzionalità che in qualche modo limitava i suoi principi sull’arte, intesa quale mezzo di comunicazione, lo spinge verso la scultura. Non è un caso che per Cordasco essa rappresenti “la struttura delle proprie emozioni” nonché una possibilità concreta di intercettare i flussi vivifici di un perdurante immaginario collettivo.

Dopo aver partecipato a diverse mostre nelle quali presenta opere, come GolaSuperbiaAccidia, ancora legate ad un repertorio segnico che rimanda evidentemente all’esperienza del design industriale, l’artista approda ad una nuova serie di opere in cui la progettazione fa largo ad un confronto più diretto con la materia, in particolare con il metallo: dal tavolo dell’architetto Cordasco  s’inoltra nei luoghi dell’officina e nei tempi delle sue pratiche, entrando in contatto con il ferro e le sue diverse tecniche di manipolazione, dal taglio alla saldatura, trovando nel recupero di una manualità artigiana nuove e più soddisfacenti possibilità espressive.

Per le opere qui proposte si tratta di quattro grandi pupe pronte ormai a rompersi per dar vita ad un nuovo organismo, un processo metamorfico nel quale l’artista cerca di mettere in evidenza l’energia creativa che scaturisce dalla materia.

Le lastre di metallo sulle quali opera  sembrano quasi lentamente fratturarsi, infrangersi per far spazio a nuovi corpi: pietre bianche che come occhi ancora ciechi si affacciano per la prima sul mondo, fili di ferro che si muovono come scritture di un linguaggio che si esprime per vagiti ma che anela a diventare parola. Ciò è quanto riscontriamo in  BuioSogno, Dolore e Volo lavori che rimandano in qualche modo al più grande miracolo della natura: la nascita.

L’attesa, perché una mostra entra di fatto nei processi di una metamorfosi in corso qual è l’arte, è che l’esordio di Cordasco non abbia la durata di una  farfalla, creatura meravigliosa e magica, il cui destino è di consumare la sua esistenza nell’arco di un giorno.

Siamo convinti che è l’inizio di un’esperienza duratura e significativa.

RICCARDO DALISI (2012)

LA SCULTURA DI UGO CORDASCO

Preferisco quelle dove la composizione si fa disinvolta nel dispiegare geometricamente le sue varie parti. Suggerisce una chiara disposizione alla ricerca di una espressione scultorea.

Anche l’uso del materiale metallico appare ben disposto mentre un efficace raggiungimento è nelle misurate superfici pulite secondo una serena geometria tridimensionale.

Lo spazio è dunque generato intorno a se in semplici giochi di rimandi. E’ come proiettare il gioco scultoreo su uno schermo in ordinati episodi.

L’esito appare raggiunto senza elaborati preparatori che a volte sono necessari a comprendere con maggiore completezza l’intento, il percorso dell’artista.

Riflessioni, tentativi di puro inizio in più di un caso sono apparsi rivelatori accrescendo quel grado di suggestione che ogni lavoro e ogni opera d’arte deve possedere.

In realtà è come per un albero, l’opera più compiuta che ci sia, che nasce dal buio della terra e si slancia verso lo spazio libero della luce creando uno spazio che costantemente si alimenta di se.

Cordasco lo si potrebbe accostare a scultori di forme pure; anche se lontano da un maestro come Giacometti, giova qui ricordare certe definizioni di scultura dello stesso: l’opera si identifica con la distanza che separa me dall’opera stessa. In questo ciò che vivacemente avviene è la capacità di coinvolgimento del soggetto attraverso lo spazio.

Ed è singolare come il suo noto procedimento del “togliere togliere”, qui, nella sua definizione, il tutto acquista respiro. Anche i suoi quadri sembrano dipingere lo spazio intorno alla figura totalmente coinvolta in esso (vedasi il ritratto della madre).

I pittori devono dipingere la luce ciò al pari dello scultore che delinea un gioco delle parti come in realtà compie Cordasco.

Nel togliere, nel ridurre fin quasi a voler farne scomparire la presenza (le forme materiali), sembra voler fare spazio allo spazio.

In un certo senso lo stesso fa Cordasco: la non forma, la non corposità della scultura, la poetica del togliere fa ricordare Michelangelo, nella nota espressione: l’opera si raggiunge togliendo e non aggiungendo. Infatti egli vedeva la statua nel blocco di marmo che riconosceva sin dalla cava, dove passava gran tempo per “trovare” il blocco opportuno.

Se guardiamo alla semplicità geometrica delle sculture di Cordasco, al gioco dello spazio che generano, possiamo comprendere il messaggio che contengono.

Vi è dunque una parte non esposta, non fisica, è come se la scultura avesse una sua radice sotterranea invisibile anche se aerea.

Vien fatto di pensare all’espressione di quell’autore che diceva: ho la tentazione di sotterrare la mia opera.

Si può quindi sostenere che quando parliamo di spazio alludiamo anche a ciò che non si vede ma se ne avverte la presenza.

Infatti quando siamo colpiti dall’immagine di alberi, avvertiamo la presenza (invisibile) delle immancabili radici che si offrono al sentimento dello spazio che è cosa diversa dalla pura percezione di essi.

Un’opera di vera scultura suscita appunto un profondo “sentimento dello spazio”. 

GERARDO SINATORE (2012)

Sicuramente sono opere “STRUTTURATE” e ciò sottintende una capacità plastica e la percezione dello spazio.

Poi, c’è l’elemento filosofico, la conoscenza, il pensiero, l’anima vagante.

Sui vuoti sei “RAFFINATISSIMO“, sui pieni, “TAGLIENTE“, amo i “DI-SEGNI“, il “GUARDIANO DELL’ANIMA“…..”IL BUIO“. 

Sono davvero vivi i tuoi “DORMIENTI” che sembra sognino “sogni senza sonno“. Complimenti, UGO. Hai saputo “TROVARE” il tuo SPAZIO, per VOLARE.

G.S.

ANTONIO CAIAZZA (2013)

UGO CORDASCO (2013)

Esposizione di alcune opere – Palazzo Comunale, Sarno

E’ da alcuni anni che seguo il lavoro “poietico” di Ugo Cordasco, che si è messo su una strada feconda di idee, ma anche di impegno umano e civile. Ugo tende con i suoi manufatti a dare risposte ai suoi interrogativi sul mondo, sulla vita, sull’essere e l’esistere, ma anche sulla propria debolezza e i suoi limiti. Si avvia pertanto a una fase di pienezza, di maturità, di vero empito creativo.

La sua arte è contemporanea nel senso vero del termine, sia per i contenuti sia per le forme, è nuova e innovativa, coraggiosa, e pertanto, è difficile da leggere anche per chi è abituato all’ermeneutica dei prodotti dell’arte informale o “di rottura” dei nostri tempi.

Il suo processo plastico-creativo nasce da affezioni genuine individuali, specifiche, e tende a tradursi in pure forme geometriche. Quando il nostro artista inizia il suo lavoro di officina, si trova in una fase sensitiva soggettiva: ha individuato un tema, prova un sentimento che non riesce ancora a mettere a fuoco: entra appena nella fase dell’inconscio. Durante il processo di lavorazione del manufatto, mentre modella i materiali ancora grezzi, entra nella fase del subconscio: da un fondo oscuro vengono messe a fuoco larve di sensazioni, immagini, idee che si chiariscono gradualmente con continue illuminazioni, verità che si calano nelle forme composite, che tendono a un’essenzialità geometrica sia delle linee sia dei piani sia dei volumi.

Le risultanze nei suoi prodotti sono forme e linee dritte o curve, in materiali di ferro (o derivati e affini) freddi, rigidi, che esprimono la massima semplificazione (del groviglio originale interiore) nella perfezione geometrica razionale. Nella loro possanza statica contengono mobilità e spinte che si realizzano in corpi, volumi e movimenti, versi, direzioni.

La coscienza viene “sublimata” dalla lavorazione dei materiali, dove anche la materia grezza informe e naturale, se resta, ha per contrasto una sua valenza di “sentimento” non elaborato, espressionistico: ad esempio, una pietra è un cuore, non un cuore di pietra, ma un cuore “naturale, genuino, ancestrale” come la pietra primordiale.

La sua tecnica, come strumentalità artigianale, non è fine a se stessa, è invece al servizio dell’arte. Mi verrebbe da pensare a Mondrian e al suo processo creativo nella pittura, in cui inventò il linguaggio universale della linea e della geometria razionale. La scultura di Ugo Cordasco si muove in un’uguale direzione, anche se il suo processo, se lo si vuol leggere nella sua sostanza, ha una valenza non platonica (cioè di conquista di idee e forme universali, da tutti condivisibili), ma freudiana, che porta alla luce idee e forme che, pur nella loro perfezione geometrica e razionale, turbano, se non inquietano addirittura, perché provocano in noi un impatto con i problemi essenziali della vita, con il nostro agire quotidiano nei confronti della società, della natura e della storia, con le nostre debolezze e i vizi umani.

Non a caso negli ultimi tempi lo scultore Ugo Cordasco ha partecipato con i suoi lavori a collettive di livello internazionale, che avevano ogni anno per tema un vizio capitale, cioè la Gola, l’Invidia e, ultimo nel 2011, la Superbia, il cui manufatto è qui esposto insieme all’Accidia e all’Avarizia.

Nel caso per esempio della superbia, essa è bifronte: infatti il vizio è presentato nella prima fase, quando nasce e prende forma. E’ rappresentato da otto fasce curve che come meridiani, partono dilatandosi da un centro posto in basso e si riuniscono nel polo superiore con un perno centrale. Dal fuoco inferiore partono altrettante aste acuminate, che perforano le fasce ai 3/4c. dell’altezza con punte minacciose in direzione radiale verso l’alto.

Nella seconda fase (qui esposta) il vizio della superbia è presentato dopo la sua esplosione. Le fasce si sono staccate e sparse, e risultano collocate in modo caotico. La Superbia, prima contenuta ma pericolosissima come un potenziale ordigno bellico, ora si manifesta in tutto il reale disordine da essa generato. Infatti la Superbia provoca pleonexia, cioè spirito di rivalità, di superiorità, di prevaricazione e di vittoria sugli altri; quindi è fonte di sventramento di un cosmo, un mondo regolato da un nomos, “una legge” che mette ordine nelle relazioni tra gli uomini e tra gli stati.

Nel concludere questa breve riflessione auguro all’autore di avere in futuro migliore fortuna, trovando locali, ambienti e occasioni più adatti all’esibizione di opere di tale spessore artistico e culturale che, da sole, fanno il vanto di una città!

Sarno, 27 gennaio 2013-01-28

Antonio Caiazza

GIORGIO DI GENOVA (2012) (critico e storico dell’arte)

Le sue “sintesi” ferro-plastiche sono molto efficaci. Riescono a restituire l’idea ontogenetica del suo fare simbolico, facilmente leggibile. Lavoro interessante in relazione alle ritmiche spaziali e al contrasto tra la sfera e gli andamenti spezzati della lamiera.

PASQUALE RUOCCO (2015)

Le Energie vaganti di Ugo Cordasco

Scritto critico di Pasquale Ruocco

Consumato da tempo ogni riferimento figurativo, che contraddistingueva la realizzazione di figure stilizzate dal carattere chiaramente simbolico e totemico Ugo Cordasco approda ad una serie di lavori di matrice evidentemente astratta, minimalista, mediante i quali aspira, mi confessa egli stesso, punta a raggiungere una sorta di grado zero della forma, una dimensione universale e atemporale della scultura, per far spazio ad una personale concezione della tridimensionalità tesa all’indagine dell’interdipendenza tra spazio e volume, nonché alla possibilità della scultura di rendere lo spazio ambiente, luogo.

Mosso dalla necessità di rileggere quanto fin’ora costruito, soprattutto confrontandosi con la dimensione urbana, associando all’attività di scultore quella di architetto, Cordasco concentra ora la sua attenzione su valori geometrici elementari, di tipo vettoriale, strutture primarie, costruite con lastre di ferro smaltato, contraddistinte da una compatta campitura nera, montate sia a parete, varianti del celebre Quadrato nero di Malevic, tra cui il recente Alfabeto della incomunicabilità, o sul pavimento issate come mehir, stele capaci di mettere in comunicazione il passato ancestrale dell’umanità con un’immagine di futuro.    

In questo senso Cordasco sembra condividere le posizioni di Donald Judd per il quale «poiché la natura delle tre dimensioni non è prefissata né prestabilita si può dar vita a qualcosa di incredibile» si può, in altre parole dare spazio a forme e luoghi capaci di attraversare e accogliere la nostra esistenza.

È quanto affiora osservando da un lato il gruppo di machette per interventi di tipo urbano tra cui si ricorda La lavandaia realizzata nel 2014 a Sarno, e dall’altro la serie di schizzi e bozzetti, parte dei quali raccolti per questa mostra, la cui essenziale linearità viene trasposta nello spazio dalla solidità e dalla duttilità del filo di ferro modellato e saldato dando corpo a piccoli reticoli, a Structurae che aspirano alla dimensione ambientale, al confronto con l’architettura e con la natura così come ricordano i lavori più recenti, Energie vaganti e cangianti.

Opere, quest’ultime, che approfondendo il confronto con le energie presenti nel paesaggio naturale – dall’orizzontalità frastagliata e drammatica delle montagne, alla solenne verticalità degli alberi, al moto continuo del mare e dei fiumi – aspirano ad una loro sintesi ma soprattutto a diventarne parte integrante. In altre parole Cordasco mira a realizzare quelle che Anthony Caro definirebbe «scultitetture», aspirando ad un dialogo più serrato con l’ambiente e per questo osservandone le opere non bisogna lasciarsi distrarre dalle loro ridotte dimensioni che piuttosto ne esaltano il valore di progetto, di modello, di utopia in attesa di domicilio.

GAETANO ROMANO (2017)

DIALOGO CON GLI SCHELETRI

 

SCHELETRI, la mostra di opere in ferro di Ugo Cordasco, è la sintesi di arrivo delle sue più recenti ricerche; l’artista ha ridotto all’essenziale – (da cui gli scheletri delle cose) la materia adoperata, filo di ferro e lamierati ferrosi con cui fa appello alle forze della natura invocando il dialogo con lo spazio.

Si avverte nella fattispecie, che Cordasco, architetto di formazione, non ha mai interrotto il dialogo con i segni e i vettori di forze della sua scienza, li ha soltanto dislocati nel contesto delle altre materie con cui è venuto in contatto ad un certo punto della sua esistenza.

Egli parla sommessamente di linee di forza, di sagome e di diagonali che racchiudono oppure limitano, l’accesso allo spazio (esistenziale, comunicativo – L’Alfabeto dell’incomunicabilità) – e rigore di stampo minimalista nella cornice concettuale dell’Arte Povera (che rifiutava di impiegare materie solenni e pregiate) – mentre trasformatosi artigiano della materia, la adopera saggiamente con discrezione, e postosi in ascolto, come suggeriva Eduardo Chillida, accoglie il monito “Ogni materia ha la sua voce, basta saperla ascoltare”.

Ma il lavoro concettuale sulla forma non gli ha impedito di riascoltare le voci profonde della natura e dei luoghi natii; nasce così “Morte di una Lavandaia” (Sarno 2014) opera posta a ricordo delle lavandaie che in quel luogo svolgevano le loro mansioni chine sulla pietra del lavatoio, e che certamente l’artista aveva scorto da bambino.

Il dialogo con i luoghi della memoria ancora viva sotto cenere di brace, pone il sensibile artista nella condizione di relazionarsi con l’ambiente, mantenendo vive le radici culturali che attraverso il genius loci alimentano la nostra appartenenza e il nostro centro di gravità permanente.

Perché, ricorda Cechov nel 1888 “Chi conosce la scienza sente che un pezzo di musica e un albero hanno qualcosa in comune, che l’uno e l’altro sono creati da leggi egualmente logiche e semplici”.

Le composizioni parietali perlopiù di piccole dimensioni, non traggono in inganno; esse sono il concentrato del pensiero, modelli o prototipi di utopie in cerca di verifica e di destinazione.

Che forza questi SCHELETRI, con la loro rigorosa e silente semplicità nativa (“non sublime, annotava Zanzotto, ma nativa, a proposito della poesia, bene ambientale, che esiste allo stato libero, come un gas, una ferita perenne”).

MASSIMO BIGNARDI (2021)

IL COSTRUTTORE DI FORME

Il dato preminente, che caratterizza le esperienze condotte da Ugo Cordasco in questi ultimi anni, è la necessità di far emergere dalla scultura un dettato costruttivo che tiene insieme sia la composizione e il suo articolarsi nella dimensione spaziale, sia il suo spingersi nell’anima dei luoghi, nel vitalismo della realtà. Parafrasando quanto scriveva Pavel Florenskij, a proposito della costruzione e della composizione, possiamo osservare che la prima è per il giovane artista campano “ciò che la realtà vuole dall’opera” e la seconda ciò che egli vuole “dalla sua opera”.

In fondo, il procedere per piani saldati tra loro, seguendo un reticolo geometrico, lascia intendere quanto il progetto abbia la priorità nel suo operare da faber,  da creativo, che della saldatura ad arco ne ha fatto un linguaggio personale, senza cedere alla suggestione dell’assemblare oggetti con il valore di ‘corpi’ posti nel registro di un segno astratto. Insomma, Cordasco, se pur interessato alla pratica compositiva, ereditata dalla lezione di David Smith, in particolare dalla serie che l’artista statunitense chiamava “totem”, si mantiene fuori da processi di pura astrazione, per restare aderente ad una scultura il cui soggetto ci appare nella sua piena trasparenza. La geometria delle forme non è fredda articolazione di piani e di angoli, bensì lucida architettura, cioè un processo costruttivo che si misura di volta in volta con lo spazio e, nella dimensione ambientale, con il luogo. In tal senso, penso ad opere quali Acqua, realizzata tra il 2009 e il 2010, con lamiere di ferro poi verniciate ed ambientata, in occasione di una mostra, nei giardini delle terme delle Acque Albule di Tivoli, oppure Morte di una Lavandaia, del 2014, collocata nella rotatoria posta sull’asse stradale centrale di Sarno, città ove vive.

La composizione delle prime prove risentiva della sua formazione di architetto, ma anche di designer, e accoglieva gli esiti di un lirismo osservato, non sul piano formale, da registri melottiani, com’è per i tableaux /sculptures  del ciclo “Di-segno ” del 2012: il filo di ferro si muove in bilico tra la materia costruttiva della forma e il suo darsi quale traccia progettuale, conservando l’immediatezza propria del disegno. È una verve lirica che testimonia del desiderio manifestato dall’artista, quando avvia, senza ripensamenti, in quegli anni, il progressivo distaccarsi dalla professione di architetto: “L’approdo alla scultura – scriveva infatti – nasce da una forte necessità interiore di ricerca di sé stessi in sé stessi, una forza irrefrenabile, un fuoco appena divampato. Il mestiere di architetto, relazionato ad un contesto troppo difficile, è riduttivo rispetto ai temi e ai problemi sociali che ci circondano, sembra sempre più banale e superficiale”.

Nell’abbrivio, e contestualmente al citato ciclo “Di-segno ”, Cordasco realizza le Crisalidi , quattro sculture in lamiera e fil di ferro con inserimenti, in alcune di esse, di marmo bianco di Carrara, policarbonato e poliestere, titolandole Il buio, Il dolore, Il sogno e Il volo. Sono effettivi complessi plastici che continuano a svilupparsi sulla bidimensionalità della parete, anche se inizia a pronunciarsi un certo aggetto, uno slancio della lamiera e dei corpi, che su di essa l’artista articola. Sono sculture che non nascondono un certo arcaismo, maggiormente evidente in Crisalide-Il dolore e Crisalide-Il volo : se nella prima la ‘testa di diamante’, posta a mo’ di corpo offensivo, al centro dello sviluppo verticale della composizione, richiama l’immagine di uno scudo, in Il volo il triangolo di policarbonato ne accentua il senso aggettante spingendo la fantasia verso il primigenio desiderio di Icaro, che era il distacco del corpo dalla materia Terra.

Distacco, da intendere come necessità di approdo alla piena tridimensionalità, che l’artista matura nella seria “Struttura e materia”: sono sei sculture del 2013, non di grandi dimensioni e variabili nel loro disporsi.

Composizioni prismatiche irregolari, costruite con sottili tondini di ferro, saldati negli angoli di congiunzione che, nel primario progetto, sono sospese e quindi pronte ad accogliere lo spazio manipolandolo come materia della struttura. All’interno dei solidi geometrici, l’artista inserisce elementi in lamiera: essi rispondono alla necessità, di vaga impronta proto-costruttivista – pensa in particolare ai Contro-rilievi  di Tatlin –, di far interagire in piena autonomia il corpo plastico con lo spazio.

Di lì a qualche anno, nel 2014, con le opere della significativa serie “Grado zero”, la scultura di Cordasco inizia a definire una propria identità compositiva. Anche se essa torna nuovamente ad insistere sulla bidimensionalità, propria del tableau/sculpture, lo sviluppo delle minime forme plastiche in aggetto nello spazio o a rilievo sul piano – le asticelle e i tondini di ferro elettrosaldati – evidenziano il tendere ad un linguaggio astratto. Un indirizzo palesato in sculture quali Icone-En plein air, in lamiera e fil di ferro grezzi, realizzata nello stesso anno e, successivamente, dalla seconda versione di “Grado zero”, entrambe oramai decisamente tridimensionali.

In queste ultime, con maggiore attenzione a Grado zero n. 7 e a Grado zero n. 8 , rese da lamiere di ferro grezzo saldate ortogonalmente tra loro, costruisce una struttura stereometrica, fortemente slanciata verso l’alto, suggerendo una visione architettonica di pieni e di vuoti, con luminosità alterne che la lamiera grezza è capace di riflettere.

Le due serie “Grado zero” segnano un momento di forte impegno dell’artista, anche se segnato dal continuo ondeggiare tra la parete, ossia la bidimensionalità del tableau/sculpture, e la piena ed autonoma affermazione del corpo plastico nello spazio. Necessità, dettata dall’incertezza di un’architettura del tuttotondo? Oppure, com’è probabile, tentativo di metter su un metodo di lavoro che conservi sia l’aura del progetto e la traccia costruttiva sul piano, sia lo slancio, il distacco del corpo plastico e il suo presiedere lo spazio?

Questi interrogativi troveranno una parziale risposta nelle due serie che, dal 2015 al 2017, segnano le pagine centrali delle esperienze di Cordasco: “L’alfabeto dell’incomunicabilità”, del 2015, è una serie di lamiere in ferro di forma quadrata e rettangolare, poste accoppiate, che, con l’aggiunta di listelli di ferro in aggetto, recupera la dimensione dell’altorilievo.

Il movimento contrapposto degli aggetti struttura un contrasto che distanzia, otticamente, i piani. Diversa è invece la scelta imposta al ciclo “Scheletri”, realizzato tra il 2016 e il 2017, ove il bassorilievo delle prime prove, caratterizzato da un forte valore segnico dettato dai tondini, prossimo per certi versi alle citate opere Di-segno, del 2012, lascia il posto al tuttotondo di un corpo, ad un’architettura primaria che richiama l’iglò, l’uovo. Il tuttotondo è pienamente definito non solo nella forma-volume, quanto nell’essenza etica del corpo ‘architettonico’, in cui – auspicava Villanueva artefice del Movimento Moderno in America latina – la forma esterna deve dar conto del suo contenuto.

È una scelta che condurrà l’artista alle opere progettate e in parte realizzate in questi ultimi due anni e qui proposte per la prima volta: sono sculture che Ugo ha elaborato ed elabora confrontandosi preventivamente con i luoghi, quindi con il loro patrimonio culturale, antropologico ed esistenziale. Quali sono i luoghi? Sono alcuni centri che, dall’area dei Picentini si spingono a quelli della Valle dell’Irno, fino a toccare i luoghi nativi della piana del Sarno, disegnando una trama narrativa affidata a corpi plastici.

Sono sculture a tuttotondo, in lamiera metallica verniciata, oppure spazzolata con l’inserimento di sfere metalliche, oppure di tondini, listelli anch’essi in ferro. Un ciclo di opere, che vede il suo avvio con Io lavoro , del 2011: il dettato compositivo, il cui schema sembra richiamarsi al boccioniano bronzo Forme uniche della continuità dello spazio , pone in evidenza le interferenze reciproche tra la costruzione e la composizione, come in fondo già dal 1924 aveva previsto Florenskij.

Interferenze, che muovono l’ordito tessuto dalle snelle lamiere nell’immaginifica ‘materia’ dei luoghi, scandendo le relazioni, i dialoghi, le narrazioni che, nel tempo, costruiranno nuove forme.